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mar 30 settembre 2003  Null'altro, se non il fruscio delle calze di seta

Aprì il piccolo portafoglio di raso nero con i ricami di strass della nonna che continuava a portare come un portafortuna, un ricordo affettuoso di un'infanzia serena. Ad un'occhiata sommaria il telefonino sembrava all'erta. Evidentemente non poteva neppure telefonarle per avvertirla del ritardo. Lo spettacolo era incominciato abbastanza puntualmente e finito all'ora prevista. Lui di solito arrivava con molto anticipo e riusciva a conquistarsi un posto bene in vista sul lato opposto della piccola piazza del teatro affollata e aspettava che lei uscisse senza spazientirsi. Era sempre puntuale e gentile. Un contrattempo, sicuramente era stato trattenuto da un contrattempo. Di solito, l'aspettava nella penombra dell'abitacolo senza ascoltare la radio, senza leggere, senza fare nulla, mai. Gli facevano compagnia i suoi pensieri, diceva.

A teatro, però, non veniva più. Gli spettacoli avevano smesso d'interessarlo da un pezzo e per dare libertà di volo ai suoi pensieri preferiva la penombra silenziosa dell'auto al rumore di fondo causato dalle voci sul palco o dal cicaleccio dei conoscenti durante gl'intervalli. A volte restava ad aspettarla per l'intera durata dello spettacolo, se era breve, senza neppure rincasare.

Per accompagnarla continuava a vestirsi come se dovesse sedersi in platea anche lui. Chiaramente non era per pigrizia o avarizia che aveva ceduto la sua poltrona in abbonamento ad amici. Sosteneva di essersi accorto del suo disinteresse per quanto accadeva sulla scena quando, per un intero atto, non aveva prestato attenzione a null'altro se non al fruscio delle calze di seta della signora seduta accanto, quando accavallava le gambe. Era una vecchia amica di famiglia: persona gradevole e anche attraente, ma non così magnetica da assorbire ogni attenzione con il più banale dei movimenti in una sala semibuia, oltretutto. Quando, rincasando, gliene aveva parlato, anche lei aveva convenuto che bisognava pensare ad una destinazione sensata della poltrona in abbonamento: un bene prezioso da non dilapidare con leggerezza.
I taxi ormai si erano tutti partiti e anche gli altri spettatori si erano allontanati in fretta, come se fosse suonato il coprifuoco. Improvvisamente la piazza le apparve completamente vuota, non un'auto parcheggiata o l'eco dei passi di qualche ritardatario; anche i latrati e i guaiti lontani di una rissa remota fra cani erano cessati

Controllò nuovamente il telefonino, ma inforcando gli occhiali, questa volta. In un angolo del display vide il simbolo dei messaggi: era una stupida pubblicità della compagnia telefonica che offriva agevolazioni per chiamate dall'estero.

Il telefono funzionava, dunque, ma era silenzioso. Le sovvenne soltanto in quel momento che, per non disturbare, aveva disattivato tutte le suonerie, come sempre prima di entrare a teatro.

Con gli occhiali sul naso, guadagnò lo spiraglio sottile di luce vivida che usciva dal portone del teatro, accostato durante pulizie prima della chiusura notturna definitiva. Lasciandosi trasportare dal solco mentale di automatismi mille volte ripetuti, le sue dita riuscirono a riattivare i suoni. Per maggiore sicurezza, decise di tenere il telefono in mano. Fu come riattaccare la spina con il mondo. La certezza di essere raggiungibile l'aiutò a riacquistare lucidità e a formulare un piano d'azione: che cosa poteva fare? Chiamarlo senza ulteriore indugio le parve la mossa più ovvia e, potenzialmente, la più risolutiva, mentre, attendere il ritorno di un improbabile taxi non era che una soluzione di ripiego. Da quanti anni non prendeva più un taxi nella sua città, oltretutto?

La sua leggera giacca da sera, morbidissima e brillante come mercurio, la gonna stretta e corta, le scarpe scollate con il tacco alto non rappresentavano certo l'attrezzatura migliore per restare ferma al freddo della tramontana che aveva cominciato ad infilarsi sotto il portico. Doveva allontanarsi da lì.

Mentre si girava, un cane randagio dall'aspetto feroce la sfiorò improvvisamente trattenendo fra i denti un oggetto indecifrabile. Procedeva di sghembo volgendo la testa indietro come se temesse d'essere inseguito. L'aspetto sgradevole la costrinse a distogliere subito lo sguardo dall'animale, ma non in tempo per evitare l'impressione di avergli visto penzolare dalla bocca una mano insanguinata, gonfia e livida, come in un vecchio film di Kurosawa. Un brivido le percorse la schiena.
Si sporse dal portico per dare un'ultima occhiata alla strada prima di telefonare. Un deserto silenzioso, salvo per il rumore lontano di una spazzatrice automatica con i fari e i lampeggianti gialli accesi: un robot solitario guidato nel suo procedere, apparentemente insensato, dalla sporcizia di cui si nutriva mestamente, brucando qua e là per le strade rigorosamente deserte. Non un'anima in giro.

Estrasse dalla borsetta gli occhiali e compose il numero con attenzione. Il tono familiare di “libero”, la tranquillizzò, ma non fu interrotto da alcuna risposta. Ricompose il numero e lo lasciò squillare finché la linea non si staccò spontaneamente. Senza più esitare, decise di allontanarsi da quel luogo divenuto spettrale. Le sue belle gambe, fonte d'inesauribili successi, seppure non sportivi, presero a spingerla con buon ritmo a dispetto dei tacchi. Si mosse istintivamente verso casa, come fanno i vecchi cavalli esperti, se il birrocciaio dorme.

Stava avvicinandosi all'angolo terminale della facciata, quando avvertì inequivocabile il suono di passi pesanti e strascicati in avvicinamento alle sue spalle che le volte del portico echeggiavano e ingigantivano. Si fermò senza voltarsi per ascoltare meglio, senza lasciar trasparire l'apprensione che pure cominciava a percepire, quando la raggiunse una voce flebile, non minacciosa. Sembrava una richiesta d'aiuto, piuttosto. Si girò: uno spettro d'uomo irriconoscibile, dilaniato e sanguinante si trascinava verso di lei.
“Luisa...”
"Luisa... una banda di cani randagi ... sembravano lupi... avevano gli occhi rossi ... mi sono riparato la gola con un braccio, ma me l'hanno dilaniato... ho dovuto parcheggiare lontano da questo deserto per colpa di quel robot"

"Quale robot? Cosa ti è successo?"

"Quella maledetta spazzatrice famelica che si muove solo nelle strade vuote e insegue e divora qualunque residuo organico trovi sul cammino. I cani la seguono e le contendono le prede... Erano cani, ma feroci come lupi ... sembravano lupi, ma molto più grossi e aggressivi... cerca subito aiuto, muoio dissanguato... il capo branco aveva gli occhi rossi come braci accese, voleva ammazzarmi... non era un cane, mi ha strappato una mano... sono arrivati in città, sono lupi mutanti delle pianure orientali... bisogna prenderli prima che... cerca subito aiu..."



Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) mar 30 settembre 2003   Invia un commento all'autore
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mar 23 settembre 2003  Nel primo anno di pace

Nel primo anno di pace, anche trovare un albergo sulle Alpi che potesse accogliere per una vacanza estiva la quarantina di soci del Club alpino Italiano, sezione di C. non era impresa banale. Di questa vicenda e delle difficoltà incontrate dagli organizzatori non so nulla di certo perché all'epoca avevo tre anni ed ero la mascotte del gruppo affiatato di amici che amavano la montagna e volevano gettarsi dietro le spalle gli orrori ed i dolori della guerra per ricominciare una vita civile normale e, possibilmente, piacevole.

Ricordo molto vagamente, per i successivi racconti più che per memoria diretta, il viaggio avventuroso per strade bianche in parte danneggiate da anni d'incuria e di miseria ancor più che da colpi di mortaio. I cartelli stradali sopravvissuti erano particolarmente rari e ogni bivio si presentava come un rompicapo. Lasciata la pianura, per imboccare la strada giusta bisognava conoscere il percorso per scienza propria o riuscire a stanare qualcuno fra i monti che sapesse fornire indicazioni utili e comprensibili.

L'italiano non era affatto una lingua universale in Italia e, anche chi lo parlava, molte volte non era in grado di spiegarsi chiaramente. Non di rado le indicazioni contenevano riferimenti a luoghi noti solo ai valligiani e, a volte scomparsi da anni, fuorché nella memoria dei sopravvisuti.

A rendere più complessa la spedizione c'era la disparità di efficienza arrampicatoria fra la corriera, una lumaca a carbonella stracarica di provviste, oltreché di passeggeri e dei loro bagagli e l'ancora più lenta moto Guzzi con sidecar che trasportava il cuoco, il suo aiutante e tutto il rumoroso, indispensabile pentolame di cui l'albergo si era dimostrato sprovvisto al momento di stipulare il contratto di affitto.

Così accadde che, quando la corriera si fermò in mezzo alla strada all'ennesimo bivio, sia per appurare il percorso da tenere, sia per aspettare cuoco, garzone e pentole, lasciati indietro e presumibilmente arrancanti su qualche ghiaioso tornante, la sosta si tinse di suspense.

I sedili erano scomodi, il viaggio lungo e scendere per sgranchirsi le gambe non dispiaceva a nessuno, ma dopo mezz'ora in cui erano state esaurite tutte le possibili lodi all'aria fina e fresca, ai boschi silenziosi di abeti colonnari, allo straordinario rigoglio delle felci e alla magnificenza di colori delle rare farfalle cominciò a serpeggiare il fastidio e poi l'ansia per le sorti del cuoco: il solo essere umano indispensabile di tutta la compagnia.

L'ipotesi che avesse imboccato il percorso sbagliato ad uno dei bivi precedenti era fin troppo ovvia, ma nessuno avrebbe potuto azzardare ragionevolmente dove fosse accaduto il fattaccio e, tantomeno, avrebbe potuto suggerire come inseguirlo e riportarlo sulla retta via, così prevalse la posizione attendista, più che per sincera fiducia in questa strategia perché appariva la più praticabile.

Quando però ci si rese conto che si avvicinava il tramonto, ma non il cuoco tutti consentirono che era inevitabile riprendere il cammino per evitare di viaggiare al buio e rischiare una notte all'addiaccio "con donne e bambini". Giunti finalmente in albergo quando il lago rispecchiava gli ultimi riflessi rosati di un lungo crepuscolo, tutti si sistemaro meglio che poterono, rinunciando a qualsiasi pretesa di cena.

Del cuoco nessuna notizia finché, nel cuore della notte, comparve fragorosamente spignattando e, prima di spegnere l'ansimante monocilindrico, parcheggiò spavaldamente moto e sidecar nel centro del cortile dell'albergo come se avesse in testa un elmo chiodato.
Fra coloro che scesero ad accoglierlo con pacche festose ci fu chi annusò nell'aria un allegro profumo di grappa: la notte è fredda in alta montagna.

Quando ci risvegliammo dopo la prima notte movimentata nel nuovo albergo sconosciuto fummo guidati alla sala da pranzo dal profumo del pane. Miracolosamente, il cuoco dato per disperso, era riuscito a farsi perdonare completamente il suo madornale ritardo e l'apprensione che aveva provocato in tutti noi, sfornando il pane caldo in tempo per la colazione. Il latte era ottimo e anche questo "prodotto in casa" dalle mucche che pascolavano liberamente nei prati dintorno all'albergo che, alla luce piena del giorno, rivelò il sua presente degrado, sovrapposto ad un passato più che dignitoso.

Aveva perduto quell'aria linda e accuratina, quasi stucchevole, tipica del Tirolo, di qua e di là dai monti, ma rivelava ancora chiaramente la sua natura di luogo di villeggiatura per un pubblico competente e privilegiato.
Dalle finestre della sala, tappezzata con le solite doghe di abete, si vedeva un lago limpidissimo e calmo, uno specchio immoto per gli abeti e le montagne maestose che lo circondavano: una cartolina vera, fatta e sputata.

Sull'onda dell'euforia di ritrovarsi tutti sani, salvi, cuocodotati, benmangiati e circondati da una bellezza naturale perfino superiore alle attese fu presa la decisione d'immortalare la situazione con una foto storica di gruppo ad imperituro ricordo di quella ripresa dell'attività del Club, dopo la luttuosa parentesi.

Lo stretto imbarcadero che, sopravvissuto alla guerra, si spingeva una dozzina di passi dentro al lago per offrire, in epoche più felici, l'approdo alle barchette a remi dei villeggianti parve il luogo più panoramico e caratteristico per consentire alla gloriosa Agfa Isolette a soffietto di M., giovane veterinario e appassionato fotografo d'immortalare il gruppo intero sullo sfondo dei monti rispecchiati dal lago. Di meglio non si poteva sperare per passare degnamente alla storia.

Il manufatto su palafitte, risalente probabilmente agli anni trenta, appariva grigiastro e triste come accade al legno dopo lunga esposizione e mancanza di pitturazioni protettive, ma non scricchiolava più sinistramente di quanto fosse ragionevole aspettarsi, tuttavia la resistenza delle tavole era più compromessa di quanto non apparisse e si rivelò in modo tanto inatteso quanto improvviso.

Al momento del fatidico sorriso del gruppo, compattato per esigenze fotografiche in uno spazio troppo esiguo, senza preavviso alcuno né scricchiolii premonitori, l'mbarcadero cedette di botto, lasciando al lago poco profondo, ma gelido, il compito di attutire la caduta e risvegliare l'istinto di sopravvivenza di ciascuno dei prodi alpinisti d'acqua dolce.
Il solo rimasto all'asciutto, con la macchina fotografica ancora al collo, si tuffò senza esitare nell'acqua per ripescarmi istantaneamente, fedele al suo ruolo di amico, il più caro e affettuoso che una sorte benevola mi abbia regalato per addolcire una vita intera.

Così accadde che il solo ricordo di quel bagno istantaneo furono i grandi biglietti da mille, veri lenzuoli, che fluttuavano mollemente nell'acqua limpida, in libera uscita dalla borsetta di mia zia I., una seconda madre, una nonna, una sorella maggiore inviata dagli dei per il mio benessere e la mia felicità nei lunghi periodi di vacanza e non solo.

Una vigorosa strigliata con asciugamani asciutti e un massaggio con borotalco mi riportarono alla condizione normale di bambino inconsapevole del pericolo a cui era capitata un'avventura divertente da ricordare.



Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) mar 23 settembre 2003   Invia un commento all'autore
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ven 19 settembre 2003  In bicicletta con tabarro e cappello

Quando il paese era ancora un piccolo centro agricolo e artigianale che nei giorni di mercato, nella vastissima piazza acciottolata, si popolava di contadini vestiti con un ampio tabarro e un cappello di feltro, apparentemente inamovibile, il mezzo di locomozione era la bicicletta, non ancora impoverita al diminutivo infantile di bici, né estraniata come mountain o city bike.

Il tabarro non era affatto scomodo, come si potrebbe pensare con la mentalità di un automobilista o passeggero di autobus. Per un popolo di pedoni e ciclisti era ideale, infatti copriva non solo le spalle e le braccia, ma anche le mani appoggiate sulle durevoli manopole d'osso sagomato del manubrio ed era discretamente impermeabile; quantomeno alla pioggia leggera ed alla nebbia bagnata, e sgrondava l'acqua esternamente alle ginocchia, se non addirittura ai piedi.
I tabarri più lussuosi, di lana leggera e morbidissima, erano doppi o, come si diceva, a "due dritti", di colori scuri in cadenza cromatica, ma si trattava di oggetti molto costosi e quindi rari. Oggi li definiremmo mantelli a ruota double-face di alpaca o vigogna.

A quel tempo, dopo l'abbattimento delle mura, la campagna pareva infiltrarsi anche profondamente nella città. Ricordo che fra la torre di San Francesco ed il vicino cimitero "fuori le mura" si estendeva un ordinato vigneto di uva nera, oggi diremmo di lambrusco salamino, che in settembre era particolarmente apprezzata da noi bambini che dovevamo eludere la sorveglianza del contadino e soprattutto del suo cane, molto più temuto.
In realtà, non era altro che un lupo bonaccione molto chiassoso che non si sognò mai di sbranare nessuno, neppure un ladro d'uva alto due braccia e con appetitosi polpacci nudi, sgambettanti sotto i corti calzoni di velluto che portavamo tutti alla fine dell'estate. Qualcuno di noi, infastidito dai calzoni alla zuava, continuava a portarli anche d'inverno, quando i cumuli di neve erano più alti di un bambino e trasformavano le piazze e le strade in labirinti.

Oggi il vecchio vigneto è diventato una fangosa terra di nessuno in attesa di trasformarsi in un rutilante centro commerciale, possibilmente fornito d'indispensabili pagode malesi o frontoni dorici, dopo essere stato per venti anni un polveroso piazzale dove sostavano i TIR ed i loro spaventosi rimorchi.



Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) ven 19 settembre 2003   Invia un commento all'autore
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mer 17 settembre 2003  Quanti carpazi ti sono rimasti?

  • Quanti carpazi ti sono rimasti?
  • Non saprei, non ci ho badato. Perché me lo domandi?
  • Mi è venuta fame; volevo sapere se potevamo permetterci un ristorante, un'osteria o solo un panino in due.
  • Io non ho fame in questo momento, puoi mangiarlo tutto tu, se vuoi.
  • Grazie, allora ne abbiamo solo per un panino?
  • Ma quanti carpazi ci vorrebbero?
  • Di preciso non lo so. Quanti hai detto che ne abbiamo?
  • Nessuno che io sappia, ma come sarebbero fatti?
  • Credevo lo sapessi tu, io non li ho mai presi in mano. Tutti dicono che è meglio sempre averne un tot per ogni evenienza. Sarà vero?
  • Il principio è condivisibile in toto, però bisognerebbe anche sapere dove li vendono per procurarsene il minimo indispensabile, per cominciare.
  • Credevo che i carpazi servissero per comprare, tu invece pensi che siano da comprare come fossero ciliegie?
  • Mah? Non so se ce ne siano in questa stagione.
  • Tu come li preferiresti?
  • Maturi e belli rossi.
  • Sono d'accordo con te, tutti dovrebbero volerli così in un paese civile, invece ormai se ne vedono di tutti i colori.
  • L'ho letto sui giornali; pare che ci sia un contrabbando fiorente. Azzardano perfino la presenza della mafia.
  • Non c'è da mervigliarsi se poi se ne trovano in giro di malcelati e contraffatti.
  • Certo, deperibili come sono! Basterebbe un po' di cura, invece ormai non c'è più rispetto per nulla.
  • Figurati che ho visto un ragazzo sputarli da un finestrino in mezzo alla strada.
  • Fossero solo loro. Purtroppo non si salvano nemmeno i vecchi, come qualcuno tende a pensare. Sono ancora peggio dei giovanotti, se è possibile. Con il pretesto del Parkinson rigano tutte le macchine.
  • E le ragazze? Arroganti e aggressive con le scarpe a punta e chiodate che ti pestano i piedi ai semafori. Parlano della dolcezza femminile… te la raccomando!
  • Di peggio ormai non ci sono che i cani da combattimento.
  • Dio ce ne scampi e liberi, per fortuna che il ministro li conosce a naso e sa come prenderli per le corna; ha detto che dovrebbero smettere di lasciarli mordere in lungo e in largo.
  • Ma si capisce, ti sembra che sia necessario che il ministro lo debba dire tutte le sere al telegiornale? Di buono c'è che almeno loro non maneggiano carpazi, che io sappia.
  • Dici che sbranerebbero anche quelli?
  • Se non avessero neanche un cane o un bambino su cui sfogarsi, non me ne meraviglierei.
  • La vista del sangue mi ha impressionato, ho paura che mi sia passata la fame, ma ti ringrazio ugualmente dell'offerta gentile: sei un vero amico.
  • Ci mancherebbe, si trattava solo di un mezzo panino, in definitiva. Com'era, a proposito?
  • Buono; un po' salatino, magari.
  • Quest'anno il prosciutto è così e non è questione di carpazi, quello dolce non si trova neanche a peso d'oro.



Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) mer 17 settembre 2003   Invia un commento all'autore
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mar 16 settembre 2003  Lo sapevi che Achille fu educato da un OGM?

  • Lo sapevi che Achille fu educato da un OGM?
  • Cosa intendi per OGM?
  • Un organismo geneticamente modificato, che cos'altro se no?
  • Allora non capisco. Parli di organismi come il mais modificato?
  • Parlo di Chirone, il centauro a cui Peleo affidò il figlio Achille perché lo educasse.
  • Ricordo Chirone, ma che cosa c'entra con gli OGM?
  • Perché non ti sembra organismo sufficientemente modificato: un uomo mezzo cavallo?
  • Ma non è mai esistito.
  • Anche io tendo a crederlo, come non sono mai esistiti il Minotauro o venendo ad epoche più vicine, il formica-leone o il liocorno o il celeberrimo ippogrifo che pure figurano nei bestiari medievali allo stesso titolo di animali come il leone e l'elefante che possiamo vedere con i nostri occhi ancora oggi.
  • E allora? Non vorrai dirmi che per il fatto di essere presenti a pari titolo con l'elefante sia mai esistito il mansueto liocorno o il poderoso ippogrifo!
  • No, dico solo che gli OGM sono sempre esistiti, perlomeno nell'immaginazione e nei desideri degli uomini e che mi sembra abbastanza curioso che proprio ora, quando possiamo permetterceli davvero, ci scandalizziamo tanto per qualche grappolo d'uva senza semi o pomodoro che non marcisce.
  • Il problema è che non si sa mai dove si può andare a finire.
  • Perché non accade forse sempre che ci possa essere un cattivo uso da parte dei malvagi e degli stupidi, che sono i più numerosi, anche delle innovazioni più innocue e più utili, per non dire indispensabili?
  • A cosa stai pensando?
  • Senza tirare in ballo i computer o il telefono o l'auto, che uccide più do qualsiasi altro strumento in paesi come il nostro, pensa solo al coltello, il semplice indispensabile coltello da cucina.
  • Certo, lo sappiamo tutti che, purtroppo si può stravolgere l'uso di qualsiasi oggetto, anche del più innocuo, ma non mi sembra che dobbiamo andare a cercarci i guai da soli modificando quello che Madre Natura ha provvidamente disposto per il meglio.
  • Certo, sempre per il meglio come quando, per la legge di compensazione universale, ha fornito a tutti gli uomini che hanno una gamba più corta una seconda gamba più lunga. Sembra che gli zoppi, ingrati, non ne siano tanto entusiasti, però.


  • Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) mar 16 settembre 2003   Invia un commento all'autore
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    gio 11 settembre 2003  Avevano uno stile fondato su di una spontanea cortesia, distaccata, ma cordiale

    Sono appena stato dal barbiere, che in realtà è una signora gentile: fino a Natale e oltre sono a posto. Forse perché il protobarbiere della mia vita era una persona sgradevole, untuosa, pettegola e con mani invereconde e volgari, non ho mai potuto soffrire di andare a farmi tosare, come si diceva comunemente.
    L'espressione "ma va a farti tosare", del resto, era quanto di più aggressivo e volgare si osasse profferire nei momenti d'ira all'indirizzo di un compagno di giochi, anche se oggi può suscitare incredulità. Se la frase avesse un senso recondito che noi bambini non conoscevamo, io non l'ho mai saputo e temo che ne rimarrò all'oscuro per sempre. Resta il fatto che io andavo dal barbiere il meno possibile, nei limiti della decenza. Non più di quattro o cinque volte l'anno.

    Un buon periodo è stato quello, a cavallo di ginnasio e liceo, in cui mio padre ed io avevamo scoperto, durante i nostri giretti serali, il barbiere di piazza Minghetti, in pieno centro, sotto il portico, proprio di fronte al monumento di bronzo dello statista in marsina e con il cilindro in mano, molto amato dai piccioni locali.
    Era una bottega austera, arredata con estrema coerenza da mobili, specchiere e poltrone di noce, tenuto da tre uomini, quasi coetanei, anche loro appartenenti ad un passato ormai al tramonto. Non c'era alcun garzone, benché all'epoca fosse una figura generalmente presente, molto più di rare manicure, ritenute un po' equivoche.


    Avevano uno stile fondato su di una spontanea cortesia, distaccata, ma cordiale e accompagnata da una sfumatura d'ironia che escludeva qualsiasi propensione al pettegolezzo o al servilismo.
    Parlavano poco, ma quando lo facevano, si esprimevano con quell'elegante linguaggio musicale, misto d'italiano e bolognese del centro, che ormai è scomparso da decenni. Non facevano domande eccetto una: "Il solito?" che io mi aspettavo, benché fosse manifestamente incongrua alla rarità dell'evento. Con pari ardimento rispondevo sempre: "Sì, il solito, grazie."
    Un brutto giorno nell'entrare dal barbiere, mi ritrovai, invece, dentro ad un bar. Nello scusarmi dell'errore, mentre mi apprestavo ad uscire nuovamente nel portico seppi, in modo brutalmente inatteso, che quell'inutile bar, l'ennesimo della zona, aveva proprio sostituito il mio barbiere.
    "I tre nonni sono andati in pensione, ma noi siamo aperti già da mesi, sa. Dev'essere passato un bel pezzettino dall'ultima volta che è venuto dal suo barbiere. Mi dispiace, ma intanto cosa le possiamo darle, signore?"
    "Il solito, grazie."
    --
    Ecco il monumento a Marco Minghetti, tanto amato dai piccioni



    Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) gio 11 settembre 2003   Invia un commento all'autore
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    mar 09 settembre 2003  Montgomery

    Quando ci trasferimmo di nuovo a Bologna da Roma erano i primi di ottobre che, all'epoca, corrispondevano all'inizio delle scuole. La casa nuova dove avremmo dovuto abitare era ancora da arredare e i miei sarebbero arrivati soltanto un paio di settimane dopo, così io cominciai a frequentare, da pendolare, la quinta ginnasio, tutta nuova per me.
    La mattina andavo in Vespa alla stazione di Modena percorrendo una ventina di chilometri, poi salivo sul treno per Bologna e in atri dieci minuti a piedi arrivavo dalla stazione al nuovo liceo ginnasio: un elegante palazzo cinquecentesco, dove mi aspettava l'ostilità della professoressa di lettere che non mi aveva allevato e selezionato personalmente in quarta e mi considerava, pertanto, un corpo estraneo da respingere.
    All'uscita facevo il percorso inverso che mi riportava nel primo pomeriggio nella vecchia casa di famiglia dove mi aspettava, invece, l'accoglienza più affettuosa e premurosa che un ragazzo possa aspettarsi dalla vita, la prospettiva di un giro in bici e di una mezza partitella al pallone.

    La giornata cominciava male con la frequenza di una scuola assurda, ma si sviluppava bene con un pomeriggio movimentato e in compagnia di amici, una cena sempre piacevole e ristoratrice, prima di andare a letto presto, in vista della levataccia.
    La stagione era buona, ma al mattino presto era piuttosto fresco e non mancava la nebbia a sfumare forme e colori della pianura che si estendeva senza confini su entrambi i lati dell'interminabile rettilineo di platani. Così era indispensabile vestirsi adeguatamente. Un vecchio montgomery color biscotto con gli alamari di cuoio ed un lussuoso bordo di pelliccia interno al cappuccio era proprio quello che ci voleva.


    Con il complemento di un buon paio di guanti e la modesta velocità che la 125 di allora consentiva arrivavo in stazione bello frollatino, ma non congelato. Al ritorno, però, il sole meridiano di un ottobre tiepido suggeriva di rinunciare al montgomery, così lo appallottolavo e lo assicuravo meglio che potevo alla Vespa, dietro alle mie spalle.
    Non era un oggetto di particolare valore neppure nella sua giovinezza e tanto meno lo era allora, quando il panno si era ormai sdrucito e lasciava intravvedere la trama nei punti di più frequente attrito, tuttavia lo amavo moltissimo e, quando smontando dalla Vespa per entrare a piedi nell'alta loggia di casa non lo ritrovai più, mi dispiacque moltissimo.


    Nel corso dei secoli successivi mi sono lasciato andare, di tempo in tempo, a comprare altri montgomery che ho anche portato a lungo, ma nessuno, per una ragione o per l'altra, ha mai saputo rimpiazzare il confortevole tepore del primo. Un paio sono ancora in servizio e l'indosso ancora nelle giornate piovosette e non troppo fredde, ma nessuno di loro è lontanamente paragonabile al glorioso cammellino con la guarnizione di pelliccia, svanito in un viaggio di ritorno da scuola.



    Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) mar 09 settembre 2003   Invia un commento all'autore
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    dom 07 settembre 2003  Dal bianco&nero al digitale

    Nel Natale del 2000 sono passato al digitale. Con questa frase fatidica voglio dire che ho ripreso, dopo molti anni di astinenza, a fare fotografie ma con una piccola (e costosa) macchina digitale: l'ultimo gioiellino della Sony, appena comparso sugli scaffali: la dsc P1.
    Mai acquisto e decisione fu più felice e benedetta: da quel momento ho potuto fare confluire in un unico spasso la mia lunga e intensa passione giovanile per la fotografia e quella, altrettanto intensa, degli ultimi quindici anni per il computer.
    Chi, come me, non è più un ragazzo e, per anni, ha speso molte serate e notti in una camera oscura casalinga di fortuna a stampare i propri rullini in bianco e nero nell'incerta luce giallo-verde di una lampada inattinica, emozionandosi al blowup delle proprie immagini nella bianca bacinella dello sviluppo, sa che è un'esperienza indimenticabile. Sa anche, però, quanti siano i limiti di cui si soffre nel tentativo di trasformare un franancobollino negativo scattato al volo con una reflex 35 mm in un ingrandimento espressivo, dal contrasto bilanciato, escludendo particolari indesiderabili, correggendo linee cadenti, rivitalizzando cieli scialbi e ammorbidendo ritratti troppo crudamente realistici.
    E' una vita durissima e gli strumenti e gli espedienti disponibili sono pochi e piuttosto spuntati, se confrontati con la ricchezza straordinaria e la potenza inimmaginabile di una camera oscura digitale come quella offerta da Photoshop. E' vero che si tratta di un software non semplice da sfruttare a fondo nelle sue infinite pieghe, ma dopo soli 3 anni, tremila ore di utilizzo appassionato ed uno studio della manualistica ben fatta che lo correda me lo sento in punta di dita e ho l'impressione di piegarlo ai miei desideri molto più di quanto non accadesse con l'ingranditore, il temporizzatore e tutto il resto, nella vecchia camera oscura chimica che ho utilizzato per almeno una quindicina d'anni.
    Poter scattare le foto con uno strumento piccolissimo e leggerissimo che mi accompagna nei miei giri occupando con discrezione una sola tasca, poter vedere le foto “crude” sul grande schermo del computer dieci minuti dopo essere rincasato e poterle poi “cucinare” con Photoshop, senza fretta, durante le sere successive, seduto comodamente in poltroncina nel mio studio, con le luci accese e senza bisogno di alcun allestimento o preparativo, eccetto quello di accendere il computer, è uno spasso impagabile al quale rinuncerei con molto dispiacere e che consiglio vivamente a tutti gli appassionati di fotografia che abbiano sperimentato in passato la camera oscura chimica e abbiano una buona dimestichezza con il computer. Non potranno esserne delusi.
    Tutte le immagini digitali firmate “@lec”, che accompagnano questi brevi blogspot sono riduzioni estremamente compresse (15/50 kB circa, da originali di 1,4/2,3 Mb circa) scattate da me con la Sony P1 o con la più recente Sony V1 ed elaborate con Photoshop.
    Che gli dei benedicano chi ha costruito questi strumenti portentosi.

    L'immagine seppia che accompagna questo testo è l'elaborazione di una foto di casolari nella Valle Pega (Comacchio)



    Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) dom 07 settembre 2003   Invia un commento all'autore
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    ven 05 settembre 2003  ...una pipa sempre in bocca e guai a chi la tocca

    Sono passati sei mesi da quando ho smesso (temporaneamente?) di fumare la pipa che mi ha sempre fatto compagnia per una vita intera, da quando avevo 15 anni.
    Risultato: mi manca.
    Molto.
    Non è una questione di tasso di nicotina carente. Quella ha smesso di circolare nelle mie arterie ormai da un pezzo ed in modo anche fastidioso all'inizio, ma non ora. Per un paio di mesi ha alterato i miei ritmi di sonno: faccenda antipatica visto che io ero (e sono tornato) uno di qui casi anomali che dormono bene tutta notte, se non disturbati.
    Ho smesso per effetto della campagna persecutoria attuata contro i fumatori, non perché avvertissi alcun disturbo o fastidio; neppure i più blandi, come la bocca impastata al risveglio o una tossetta “da fumo” o altre sciocchezze.
    Quando l'onda persecutoria si è estesa dai cinema, dalle stazioni e dagli aeroporti, ai ristoranti fino alle spaziose e ariose pareti domestiche ho finito con l'arrendermi, tristemente, come chi è costretto a subire un torto, ma è stanco di difendersi e cede alla sopraffazione.
    Ho sempre scelto tabacchi di buona qualità e dal profumo gradevole e non penetrante che, a parer mio e anche di non infrequenti persone gentili, profumavano l'aria delicatamente ed ho sempre evitato i neri trinciati dal sentore acre. Se la stagione lo permetteva, accendevo la pipa all'aria aperta e con la massima attenzione a limitare l'eccesso di fumo iniziale e la lasciavo spegnere prima di entrare in angusti locali pubblici.
    Non sempre il risultato era coerente con l'intenzione, ma m'illudo di aver disturbato meno di tanti energumeni vocianti e bellesignore dal profumo invadente, per non parlare di altre ben più aggressive e pericolose forme di maleducazione.
    A sei mesi dalla loro rimpianta scomparsa, un affettuoso e nostalgico ricordo alle mie belle pipe.

     

    "Chi non fuma nella pipa non conosce la canzon" (a mio nonno)

    Una pipa piccolina da fumare la mattina
    una pipa molto scura solo in caso di paura
    una pipa tutta nera da fumare quando è sera
    una pipa fra le dita per guardare la partita
    una pipa sempre in bocca e guai a chi la tocca
    una pipa da succhiare se c'è vento in riva al mare
    una pipa larga e tonda se c'è calma sulla sponda
    una pipa con ghiera d'argento in caso di maltempo
    una pipa di scorta in tasca se minaccia una burrasca
    una pipa corta e stretta per i giri in bicicletta
    una pipa perduta? Non bere la cicuta
    una bella pipa di schiuma, beato chi la fuma
    una pipa figurata: meglio d'una scampagnata
    una pipa di radica chiara mezza dolce mezz'amara
    una pipa tutta d'osso, buttala nel fosso
    una pipa di terra rossa purché sia proprio ben cotta
    una pipa qualunque lasciala a chiunque
    una pipa da signorina lunga sottile e leggerina
    una pipa da vecchio bella grossa e lucidata a specchio
    una pipa o due rare belle solo da guardare
    una pipa da collezione niente fumo tutto blasone
    una pipa regalata ti rallegra la giornata
    una pipa sol per me la più buona e bella che c'è
    una pipa, poi un'altra e un'altra ancora finché arriva la buonora
    una pipa e basta.



    Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) ven 05 settembre 2003   Invia un commento all'autore
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      • Lo sapevi che i giudici sono matti?
      • Si capisce, lo sanno tutti, anche i romani che hanno inventato il proverbio dura lex sed lex che trovi ancora nei tappi del chinotto li sceglievano “insani” come ha detto il capo che dice sempre quello che pensa e ne sa una più del diavolo.
      • “Mens insana in corpore vili”, è così che la pensa?
      • Più o meno.
      • Ma guarda... Sai che io non sapevo che fossero tocchi, fino a quando non l'ha detto lui oggi. E come si spiega?
      • Semplice, è la mossa migliore per movimentare la situazione. Da quando hanno scritto le leggi, i verdetti sarebbero stati sempre prevedibili, invece così c'è ancora l'emozione dei vecchi tempi, quando le leggi se le inventavano al momento.
      • Giusto, è come una lotteria: i processi sono più emozionanti.
      • Infatti, poi è una garanzia per tutti. Pensaci bene. Anche un colpevole preso con le mani nel sacco può sempre sperare fino all'ultimo che un giudice matto gliela passi liscia.
      • Giusto, non siamo mica dei cannibali, la speranza non la si deve negare a nessuno. Poi come si farebbe con i tre gradi di giudizio, risulterebbero sempre uniformi, andrebbe a finire che nessuno ricorrerebbe al grado successivo, capisci?
      • Ma certo, e gli avvocati tutti a spasso… una catastrofe.
      • L'hai detto; sarebbe l'inizio della fine. S'incepperebbe tutta la macchina.
      • Ma allora quando il capo dice che sono matti, geneticamente diversi ecc. non lo dice per offendere.
      • Ma scherzerai, nessuno più di lui sa quello che ci vuole per far marciare bene i suoi affari e di conseguenza quelli di tutti noi, e nessuno più di lui sa cosa dire e fare.
      • Allora voleva fare una specie di complimento.
      • Certo, ma non si può mica pretendere che lo capiscano tutti subito.



    Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) ven 05 settembre 2003   Invia un commento all'autore
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    mer 03 settembre 2003  Maremosso

    ... dopo la poderosa libecciata di fine agosto il mar ligure era veramente agitato sotto uno splendido sole. Meglio guardarlo da rispettosa distanza:



    Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) mer 03 settembre 2003   Invia un commento all'autore
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    mar 02 settembre 2003  Un guardasigilli con il campanaccio al collo

    • Hai visto passare un guardasigilli?
    • No, oggi no. Non credo, almeno. Non ci ho fatto caso, diciamo pure. Come si distingue un guardasigilli da un guardiacaccia, ad esempio?
    • Scusa se te l'ho domandato, ma mi era sembrato di vederne passare uno un momento fa. E' per una caccia al tesoro. E' stata appena una sensazione, con la coda dell'occhio. Tu hai visto un guardiacaccia, invece?
    • No, neanche quello, ma niente paura, non ho la coda di paglia sull'argomento. Da quando sono tornato da Belo Horizonte dopo vent'anni di villeggiatura nelle miniere locali, me la prendo molto calma: credo che mi sfuggirebbe perfino un guardacoste.
    • E' stata dura, eh? E con la lingua come te la cavavi?
    • Bene, se avevo qualcosa da metterci sopra?
    • Fame nel mondo?
    • Forse, io mi accorgevo solo della mia, ma sicuramente l'orizzonte era più vasto, oltreché belo.
    • Hai notato come si siano perse le doppie? Gabriela Sabatini aveva una L sola…
    • … ma tutto il resto era bello doppio.
    • Verissimo, l'hai conosciuta?
    • Magari, guarda che le belle tenniste e i minatori non frequentano gli stessi locali.
    • Certo, ciascuno nel suo guscio, è giusto, ma pensavo che siccome era d'origine italiana …
    • Metà degli argentini sono italiani d'origine, ma fanno di tutto per confondere le acque.
    • Me lo hanno detto che molti hanno lasciato cancellare ogni traccia del loro luogo d'origine, dei loro parenti.
    • Sai, gli emigrati non appartenevano tutti alle case regnanti, ma, in ogni modo, è ugualmente molto triste che si vergognassero delle loro origini, qualunque fossero.
    • Tristissimo, ma come sarà?
    • Tanti buoni motivi; molti non volevano essere rintracciati semplicemente perché non avevano “fatto fortuna” e si vergognavano della loro miseria; altri avevano semplicemente voluto sparire dalla circolazione per motivi personali, altri erano dei veri e propri ricercati…
    • Criminali nazi?
    • Anche quelli, ma sono pochi. Parlo di gente che fa il cuoco in un ristorante con un nome inventato e che non ha mai scritto una cartolina nemmeno a sua madre per vent'anni per paura di essere rintracciato dal fisco e dover pagare arretrati e multe.
    • L'hai conosciuto di persona?
    • Quello sì e anche uno che al suo paese era un proprietario terriero con casolari e stalle e poderi in pianura piantati a frutta e a vite, che aveva perso tutto al gioco ed era finito a fare il bovaro in mezzo alle pampas, abbandonando moglie e figli.
    • Ne hai visto di mondo…
    • Più che altro la parte scura.
    • E ora cosa pensi di fare?
    • Stare seduto al sole e se passa un guardasigilli con il campanaccio al collo non battere ciglio.



    Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) mar 02 settembre 2003   Invia un commento all'autore
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