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ven 29 settembre 2006  Il chiodo

Allacciò la fascetta dell’ombrello che non gli era servito e lo ripose nel portaombrelli dell’attaccapanni nell’atrio spazioso, vuoto e silenzioso, come sempre. Lasciò appeso il suo montgomery pesante a fare compagnia all’ombrello, altrimenti solitario. Prima di allontanarsi ne controllò meccanicamente le tasche per constarvi la presenza dei soliti scontrini di caffè bevuti chissà quando, in attesa che giungesse l’ora fatale in cui sarebbero finiti tutt’insieme in un cestino e di un chiodo di emergenza destinato, invece, a restare in eterno nella tasca per riapparire sorprendentemente fra le dita quando il gelo stanava dall’armadio il glorioso giaccone di panno con cappuccio. Se lo era procurato anni prima per sturare la pipa da un ferramenta, stupito della sua richiesta. Chiodi

Dove avevano ficcato i loro cappotti i cari colleghi, arrivati già da ore? Minacciava pioggia quando era uscito di casa, così si era avviato a piedi con passo rilassato, lasciando la moto in garage. Usare l’auto era impensabile per l’impossibilità di parcheggiarla e l’autobus non gli piaceva. Se fosse stato un tram come quelli che collegavano le stazioni ferroviarie periferiche a tutti i punti principali della città quando era bambino, forse avrebbe potuto prenderlo in considerazione, ma la perfetta rete di binari era stata divelta o sommersa dall’asfalto da una dissennata politica iconoclastica che li aveva sostituiti con giganteschi autobus diesel, puzzolenti e rumorosi: una presenza assurda fra le tortuose strade medievali del centro.


Nell’attraversare il grande parco pubblico vicino a casa aveva incontrato pochi cani in libera uscita e un gruppetto di slavi seduti ai tavolini vuoti sotto la tettoia dello Chalet del laghetto. Sulla natura dell'impegno che richiamava i cani non aveva dubbi, ma gli slavi, invece? Cosa ci facessero in quel luogo, a quell’ora e con quel freddo se lo domandava ogni volta, ma non era tipo da risolvere dubbi del genere facendo domande. In che lingua e con quale pretesto, poi? Che cosa avrebbero potuto dirgli? "Facciamo gli affari nostri… tu fatti i tuoi". Per qualunque ragione fossero lì, apparivano rilassati e contenti d'incontrarsi fra di loro in luogo appartato e privo di stranieri. Non avevano l'aria di disoccupati infelici della loro condizione. Che cosa si dicessero era un mistero, a malapena gli sembrava di distinguere la lingua: serbo-croato, ma non avrebbe potuto giurarlo.


In prossimità del grande cancello dell'uscita occidentale, duecento alberi più ad ovest, s'incontravano, invece, slavi diversi che apparentemente parlavano russo, ma non erano russi, a quanto gli era parso di capire. Gli sembrava d'aver intuito in una precedente occasione che venissero da uno dei grandi frammenti staccatisi dall'impero sovietico dopo la sua frantumazione, quale fosse, però non lo ricordava più.
Usciti dal cancello di  quello che, per decenni, era stato il maggiore parco della città riservato a cani e bambini autoctoni la situazione ritornava, all'apparenza, più simile a quella tradizionale di una città di provincia abitata da gente nata e destinata  a   morire sotto le due torri che usava esprimersi in un dialetto dolce, ricco di diminutivi e inframmezzato di buffe traduzioni letterali in lingua italiana, del tutto  pleonastiche, vista l'origine comune dei dialoganti.


Nel rarefatto traffico della stretta strada che congiungeva la porta, poco più di un rudere medievale, alla piccola piazza occupata dalle più celebri, ma non certo  le  sole, fra le torri cittadine, aveva attraversato la strada per raggiungere il lato occidentale sul quale si apriva un bar. Un tempo era stato famoso per i gelati di produzione artigianale, sempre disponibili durante l'anno intero, in epoche in cui usavano solo i chioschi stagionali, chiusi durante l'inverno intero, dalla stagione delle castagne fino a Pasqua.


Entrando  nel bar per un banale cappuccino, non aveva potuto evitare di correre con il pensiero all'epoca, ormai lontana, in cui lo frequentava in compagnia del suo cane: un collie affettuoso dal pelo fulvo che era solito leccarsi compostamente un piccolo cono tutto per lui, sotto gli occhi ammirati di un piccolo pubblico improvvisato che ne ammirava la compostezza. Bei tempi. Il cane, “da ignota mano rapito” durante una solitaria passeggiata notturna, doveva essere morto da decenni e, nonostante il lungo tempo trascorso, il vuoto che aveva lasciato era incolmabile. Volendo lasciarsi andare a malinconie nostalgiche, bisognava riconoscere che neppure i gelati era più buoni come un tempo; la nuova gestione puntava sulla strabiliante varietà dei gusti piuttosto che sulla qualità della crema e della cioccolata.


Nell'uscire aveva a stento evitato uno scontro con un ragazzo cieco che si muoveva con un'irragionevole disinvoltura. L'istituto per ciechi, prima che li degradassero ipocritamente in non-vedenti, era a poche decine di passi e tutto il territorio circostante era percorso da giovani intraprendenti che si muovevano alla cieca e con spavalderia sugli abituali percorsi, preceduti da petulanti bastoncini bianchi, del tutto inadeguati alla tutela degl'intrusi normovedenti di passaggio. Non visto, sorrise ripensando ad una barzelletta spassosa sull'alfabeto Braille, sentita da un suo amico cieco, appunto, e s'infilò sotto il portico di modeste pretese, ma in grado, tuttavia, di ripristinare l'abituale protezione che lui e i suoi concittadini erano abituati a pretendere camminando per le strade del centro. Constatò che la modestissima vetrina di accessori per calzoleria continuava ad esporre lacci, solette, fibbie e lucidi da scarpe. Meno male. 

L’orda inarrestabile di boutique e scarpivendoli non l'avevano ancora fagocitata, ma era solo una questione di tempo. Non era mai entrato in quel negozio anche se gli sarebbe piaciuto pensare di aver contribuito alla sua sopravvivenza. Del resto, era ben difficile che entrasse in un negozio, in qualsiasi negozio. A parte la frutta e il pane che si procurava  qualche volta al mercato ed il restante indispensabile che acquistava nei grandi magazzini periferici, rimpinzando l’auto una volta ogni morte di papa come un carro del far west, non aveva niente da comprare. Da vendere, piuttosto, o anche da regalare. Non solo di lacci e solette, ma anche di scarpe aveva una provvista che gli sarebbe bastata per migliaia di kilometri invernali ed estivi, all’asciutto e sotto la pioggia.

Era entrato in una fase della vita in cui la sua meta principale consisteva nell' evitare i fastidi e le cause di fastidio. Se sollecitato sull’argomento da un incauto curioso, avrebbe saputo dimostrare come anche la caduta dell'impero romano fosse avvenuta per mancanza di manutenzione: troppa roba a cui badare. Bisognava ridurre, sfoltire, vendere, regalare. Una delle prime vittime di questi frustranti e inutili raid mentali di disboscamento colpiva sempre i mezzi di trasporto che infestavano il piano terreno, giardino compreso. Sarebbe stato difficile per chiunque dimostrare che le tre auto, il camper, i quattro motomezzi e la mezza dozzina di biciclette erano necessari. Semplicemente se li era trovati in casa come altrettanti “Bartleby, the scrivener” e liberarsene era altrettanto difficile. La presenza di computer dismessi era almeno altrettanto invasiva e preoccupante, ma per fortuna erano molto più piccoli e finivano con il mimetizzarsi negli angoli delle cantine, dei corridoi di casa e anche sotto gli scrittoi. Quanti fossero non avrebbe saputo dirlo.

Più affrontabili erano le incrostazioni di scarpe, giacche e camice che, in rari sussulti di coraggio, aveva avuto il fegato di buttare alla fine di un onorato servizio, proprio al culmine della carriera quando, lise e sfiancate dall’uso, avrebbero offerto il maggior confort. Riguardo alle maglie aveva subito un colpo di fortuna madornale: un attacco vittorioso di tarme senza pietà lo avevano liberato quasi completamente di un patrimonio di lane pregiate da cui non avrebbe mai saputo affrancarsi altrimenti.
Che un nugolo di tarme aliene giganti si fossero pappati anche i colleghi? Non osò sperare tanto, ma ad ogni buon conto raggiunse il suo ufficio in fondo al corridoio con passo da gatto, per non correre il rischio di stanare incautamente qualcuno annidato silenziosamente dietro la sua scrivania.
Mota sedare, quaeta non movere.



Pubblicato da Alessandro C. Candeli (@lec) ven 29 settembre 2006   Invia un commento all'autore
"Hac re videre nostra mala non possumus; // alii simul delinquunt, censores sumus." (*)

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